Qualche tempo fa avevamo scritto un post Il bastone e la carota: i kumi jo e i kata dei ventordici.
In quel post dicevamo, in estrema sintesi, che intorno agli esercizi di jo, soprattutto relativamente alle varie forme –kata– regna quella che dall’esterno può apparire una certa confusione. Dall’interno spesso ha il sapore della discordia. Molto raramente tutto ciò viene visto come una tessera di un mosaico più grande.
Intuitivamente si riesce abbastanza a comprendere il senso delle tecniche a mani nude. Grosso modo, le tecniche lavorano su articolazioni, catene cinetiche e punti di squilibrio: se eseguite secondo il principio che incarnano, consentono di immobilizzare o proiettare il compagno di pratica.
In breve: hanno un loro perché.
Ma il perché deve essere sempre ben contestualizzato, sennò si finisce nell’ovvio stupore di un Mike Tyson che, giustamente, non comprendeva il senso di attaccare una persona prendendola per entrambi i polsi.
Nella didattica del buki waza -delle armi- il perché diventa imprenscindibile.
Nel nostro post precedente ironizzavamo sul kata dei ventordici. Basta fare una ricerca su YouTube inserendo le keyword “jo kata Aikido”, per capire perché.
Negli oltre trentamila video indicizzati (pochi per essere YouTube), la maggioranza dei risultati è collegata ai tre kata (roku no jo kata, jusan no jo kata, sanjuichi no jo kata) sistematizzati da Morihiro Saito e diffusi secondo lo stile dell‘Iwama Ryu. E già confrontando i video di Saito sensei con le migliaia di imitatori, si nota spesso l’effetto “telefono senza fili”. Qualcosa nella trasmissione si perde.
Ma le faville che sono originate dal fuoco originale di Morihei Ueshiba non hanno acceso soltanto il focolare di Morihiro Saito.
Molti altri hanno diffuso l’Aikido nel mondo, secondo quanto avevano visto, capito e integrato, magari anche con altri percorsi in parallelo.
E così, sui tatami come su YouTube, c’è un campionario di kata molto vasto, proposto da maestri che hanno frequentato il Fondatore e che sulla base della loro autorevolezza tecnica e storica hanno diffuso ulteriori forme.
Se poi, in quella zona grigia che sta a metà fra il legittimo desiderio di esplorazione e il narcisismo adolescenziale mai sopito, chiunque si mette di fronte alla telecamera e inventa un kata che propone e a volte impone al suo gruppo, la ramificazione aumenta.
Indipendentemente dallo stile che si pratica, indipendentemente anche dall’Arte Marziale che si studia, radicamento, postura, centralità, connessione, sono alcuni dei pilastri imprescindibili per una pratica rettamente intesa dal punto di vista tecnico.
Poi uno guarda i kata di O’Sensei del 1952 (che vengono ripresi per esempio da Hiroshi Tada Sensei) o quello del suo pupillo, Koichi Tohei Sensei.
Come si può affermare che…l’inventore dell’Aikido, l’allievo che egli stesso definì come più vicino al suo modo di concepire la disciplina e il monumento vivente dell’Aikido italiano non sappiano che cosa siano radicamento, postura, centralità… Sarebbe un paradosso, e infatti non è possibile.
Eppure l’esecuzione di queste forme, quantomeno dal punto di vista didattico, è svolta in un modo talmente personalizzato da renderla quasi incomprensibile. E quindi pericolosamente scivolosa dal punto di vista metodologico per l’insegnamento.
Infatti, per il noto proverbio che vede come protagonisti un maestro, un allievo, un dito e la Luna, la troppa complessità è un’arma a doppio taglio.
Perché l’essere umano detesta la complessità e ritiene, una volta copiata una forma in un modo ritenuto soddisfacente, di aver “compreso“.
Così nel variopinto mondo dei video on-line, vediamo un sacco di emuli dei mostri sacri dell’Aikido che ripetono quello che hanno…compreso.
L’eleganza fluida di Tohei finisce con l’essere rappresentata da colpi dati come se si stesse pattinando sul ghiaccio. La vibrante ricerca di Tada viene riprodotta con movimenti convulsi. La perfezione geometrica di Saito diventa spesso una manifestazione della contrazione di qualsiasi muscolo possibile e immaginabile.
Se poi andiamo a vedere nel dettaglio, vedremo praticanti che imbracciano il jo come se fosse un fucile ad avancarica arrivato direttamente dalla guerra per l’indipendenza. Altri come una fiocina per pescare i polpi o come una canna da pesca. Altri ancora che menano fendenti impugnando il bastone come se fosse la scure usata da Rocky Balboa quando si allenava per sconfiggere Ivan Drago.
Infine, potremo anche vedere delle transizioni in cui le parate a livello jodan avranno il jo in tutte le posizioni pensabili: parallele all’hanmi, ortogonali all’hanmi, sulla tempia sinistra, su quella destra… Rotazioni del jo a una mano, a due mani, sotto le ascelle…
Che gran confusione!
E’ che ci piace talmente praticare che difficilmente siamo disposti a mettere in discussione quello che, faticosamente, abbiamo imparato e memorizzato.
Sarà pur vero che Saito Sensei ha vissuto con il Fondatore per più anni di tutti gli altri. Quindi è molto probabile che nella sua schematizzazione lui abbia compiuto un grosso sforzo di trasmettere un archivio minimo e completo di elementi di base per poter praticare gli stessi principi sia a mani nude, sia con l’uso delle armi.
Ma la questione non è dibattere in modo sterile e inutile sulla presunta o reale completezza tecnica e filologica dell’Iwama Ryu rispetto ad altri stili.
La questione è che il praticante di Aikido, in ogni stile, ha diritto ad una didattica in cui non si perda. Ha diritto ad un insegnamento che preveda una didattica di armi che ribadisca i medesimi principi e i medesimi movimenti.
Ha diritto a poter scoprire, nelle “poesie a memoria” che gli vengono insegnate, qualcosa che ritrova altrove e non solo nella poesia in sé.
Si fa fatica, per fare un esempio tra tanti possibili, a comprendere sistemi di insegnamento in cui nella pratica a mani nude si insegna la stabilità, l’estensione e la potenza ma quando si passa a certe forme col jo, il jo viene usato per colpire con entrambe le mani che lo tengono ad una estremità durante uno tsuki. E dove vanno a finire la stabilità, il radicamento e l’estensione?
O si fa…Perché si è sempre fatto così e si deve fare così?
Si può discutere su tutto. Se sia meglio caricare un colpo facendo basculare il jo o con un movimento lineare. Se un colpo “ushiro” sia ancora tale se il corpo ruota totalmente nella direzione del colpo. Se la massa del corpo debba essere sempre distribuita in modo omogeneo sull’hanmi o se ci siano casi in cui spostarla di più su uno dei piedi…
Però non si può -non si dovrebbe- discutere sulla spiegazione funzionale dei vari passaggi dei kata.Se questi passaggi hanno un senso funzionale e se si possono applicare anche al tai jutsu, allora siamo in presenza di una tessera in più di un mosaico molto vasto da essere esplorato.
Se, alla resa dei conti, il senso funzionale non c’è e si deve ammettere che “si fa così, perché si è sempre fatto così”, allora è bene iniziare a riavvolgere il nastro e tornare al punto in cui dietro una tecnica si trova un perché. Diversamente la nostra pratica è uno studio di “mosse“.
Quelle che “mio cuggino impara in palestra e fa ai balordi”.
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